VERBANIA – 24.07.2018 – L’atto d’accusa
è voluminoso e in 117 pagine condensa le vicende personali e professionali di quasi duecento persone che, in una veste o nell’altra, sono rimaste invischiate nel crac di Veneto Banca. Nell’inchiesta della Procura di Verbania da un lato ci sono le vittime, quelle che hanno presentato denuncia – il reato di truffa è procedibile su querela anche se, sussistendo l’aggravante, lo diventa d’ufficio e una volta avviato, il procedimento non si ferma più. Provengono nella stragrande maggioranza dal Verbano e dall’Ossola, qualcuno è dell’alto Novarese. Tutti hanno sottoscritto, in filiale o negli uffici della propria attività, contratti di acquisto di azioni che sulla carta valevano 39,5 euro l’una (il prezzo massimo raggiunto negli ultimi anni) ma che, nel patatrac di Montebelluna, sono state azzerate. Azioni non quotate, di cui non potevano liberarsi e che, se avessero voluto vendere, sarebbero dovuti passare dalla banca stessa, che ha quasi sempre detto no in questi anni. Il taglio medio dei pacchetti azionari detenuti dalle parti offese individuate dall’inchiesta è di 15-20.000 euro, ma c’è per esempio una famiglia che ci ha rimesso quasi mezzo milione.
Dall’altro lato, chiamati in causa per aver venduto loro i titoli, ci sono i dipendenti. E non solo i vertici di Veneto Banca, quei pochi manager che da Montebelluna o nella direzione locale impartivano direttive e chiedevano, anzi insistevano, che si vendesse. Telefonate a tutto spiano, appuntamenti, pressioni. I clienti si convincevano così, invitandoli a mettere al sicuro i risparmi che, lasciati sul conto, non producevano utili. Peccato che le azioni fossero tutt’altro che un investimento sicuro (e la banca lo sapeva). Peccato che le stringenti norme di trasparenza informativa poste a tutela dei consumatori fossero aggirate. L’Unione europea con la direttiva Mifid, Banca d’Italia e Consob con un proprio regolamento congiunto e persino il manuale operativo di Veneto Banca impongono che prima di concludere un contratto si debbano profilare e valutare i clienti Se ne devono raccogliere i dati e, in base all’età, al titolo di studio e alla professione, si stabilisce se l’investimento proposto è appropriato. Questa procedura è accessibile per via telematica, da un terminale di computer, e se si conclude con esito negativo, l’operatore deve fermarsi e informare il cliente dell’impossibilità di concludere l’accordo. Nei casi analizzati dalla Procura così non è accaduto e si è andati avanti.
Nelle contestazioni contenute nell’avviso di chiusura indagini si ricostruisce il meccanismo utilizzato, laddove si afferma che i vertici della banca “ordinavano la disapplicazione dell’ausilio informatico Ars per il collocamento dei titoli”, e che “predisponevano un elenco di potenziali acquirenti sul criterio del solo possesso di una liquidità superiore a 10.000 euro, assegnando alle filiali, per il tramite delle Direzioni Territoriali, obiettivi numerici di vendita delle azioni interne Veneto Banca e monitorandone settimanalmente il raggiungimento, invitando gli operatori anche a recarsi al domicilio dei clienti”. L’imperativo era vendere e per perseguirlo le stesse strutture “rassicuravano le Direzioni Territoriali, i gestori della rete ‘private’, i direttori delle filiali, quindi i loro impiegati, in merito alla bontà dei titoli emessi”.
Seguendo questa filiera che partiva da Montebelluna e arrivava agli sportelli del Vco, il pm Sveva De Liguoro ha ritenuto sussistente il reato di truffa. Questa strategia di marketing forzato, secondo l’accusa, costituisce gli artifici e i raggiri medianti i quali, come prevede il codice penale, provocando per sé un ingiusto profitto con altrui danno, si concretizza appunto la truffa. Che, nei casi di specie, è aggravata perché c’era un rapporto contrattuale, si abusava della fiducia del cliente, sono spariti importi ingenti.