VERBANIA – 07.02.2019 – Assolti perché il fatto non sussiste:
a Villa San Remigio non ci fu assenteismo, né truffa. Dopo un’ora di camera di consiglio e al termine di una mattinata interamente dedicata a pm e avvocati, il giudice Raffaella Zappatini ha scritto, almeno per ciò che riguarda il primo grado di giudizio, la parola fine alla lunga indagine –risale al giugno 2013– dei cosiddetti “furbetti del cartellino”. Dei cinque dipendenti della Regione Piemonte in servizio negli uffici distaccati di Villa San Remigio accusati di truffa aggravata per aver lasciato il luogo di lavoro senza timbrare, due avevano patteggiato e una aveva chiesto la messa alla prova. Solo due posizioni erano ancora aperte, quelle dell’autista Claudio Suman e di Daniela Sana, funzionaria dell’Urbanistica. Entrambi hanno scelto il dibattimento e la via di un lungo processo che ha avuto appunto oggi il suo epilogo. Un processo in cui l’accusa, rappresentata in aula dal pm Anna Maria Rossi (il fascicolo era stato coordinato dall’allora sostituto procuratore Bianca Maria Baj Macario, poi trasferitasi a Milano), ha puntato molto sulle registrazioni della telecamera che la Guardia di finanza nascose per due settimane sopra la timbratrice situata in uno degli ingressi della villa. Telecamera che ha immortalato i due dipendenti in diverse uscite ed entrate considerate “sospette” e meritevoli della richiesta di rinvio a giudizio. Ma, al contrario degli altri indagati, per Suman e Sana non sono stati installati gps nei mezzi, acquisiti i tabulati dei cellulari e –tranne che in un occasione, parzialmente, per l’autista– effettuati pedinamenti.
Indagini mal condotte e “pedestri”, come le ha definite l’avvocato Marco Ferrero, co-difensore di Sana insieme a Marisa Zariani, che ha puntato sulla mancanza di elementi di prova sul luogo in cui, nei momenti contestati, si trovasse la sua assistita, la quale s’è giustificata spiegando di utilizzare altri ingressi, di sostare nel parco o di svolgere mansioni nel seminterrato ove aveva sede l’archivio. “Non tocca alla difesa fornire le prove dell’innocenza: bastava mettere un’altra telecamera all’esterno – ha detto Ferrero, aggiungendo la considerazione che la Procura ha selezionato chi mandare a giudizio, risparmiando alcuni –, pedinare gli indagati e proseguire le indagini che, con soli 14 giorni, non possono essere prova di un comportamento abitudinario”.
“La montagna ha partorito il topolino”, ha detto Riccardo Lanzo, difensore di Suman, che nell’associarsi al collega ha rimarcato le lacune della Regione, intesa come datore di lavoro: “Non è mai esistito un registro di entrata e di uscita. Il mio assistito dopo quell’indagine s’è visto riconoscere che lavorava ore in più del dovuto, tanto che oggi nella settimana in cui non segue l’assessore di turno, non è più a disposizione degli uffici di Verbania ma libero, in riposo”.
Sulla Regione, costituita parte civile con l’avvocatura interna e che ha chiesto un indennizzo per le ore pagate e contestato, ma anche per il danno d’immagine, lapidario è stato il commento dell’avvocato Zariani: “Se questi (i dirigenti che hanno testimoniato nel processo, ndr) sono i dipendenti della Regione, Dio ce ne scampi e ce ne liberi… Non c’è stato alcun danno d’immagine”.
Anche il pm era stata severa verso l’ente, che non ha mai vigilato con efficacia sul lavoro e gli orari dei suoi dipendenti. Ma ne ha sostenuto la colpevolezza, puntando sulla “macchinazione” della timbratrice e su un “metodo abitudinario” di passare il badge e poi allontanarsi. L’accusa ha parlato per più di tre ore, facendo passare alcuni video della telecamera e concludendo con la richiesta di 8 mesi e 400 euro di multa per Suman (contestando 971,97 euro), 7 mesi e 300 per Sana (123,86), ma solo per i giorni supportati dai video. Tra i capi d’imputazione c’erano anche, calcolate per deduzione secondo i comportamenti osservati in quei 14 giorni, le presunte assenze tra gennaio e maggio per cui la stessa Rossi ha chiesto l’assoluzione.